La Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea, ha recentemente affermato che “la preoccupazione principale è l’inflazione […] non vogliamo mettere in ginocchio l’economia, non è il nostro obiettivo; noi vogliamo domare l’inflazione e, come banca centrale, i tassi di interesse sono la nostra arma principale per farlo”. Aggiungendo, poi, che in Eurozona “al momento l’economia si sta rivelando resiliente”.
Isabel Schnabel, economista e membro del comitato esecutivo della stessa BCE, ha confermato l’esigenza di ridurre il bilancio della Banca agendo sull’interruzione dei programmi di acquisto di titoli sovrani europei, anche per riequilibrare alcune distorsioni che si sono create attraverso un eccesso di liquidità sui mercati. Ciò comporterà, tra l’altro, l’interruzione della quota di acquisti di Titoli di Stato anche italiani, con intuibili rischi (i.e. ipotesi di effetto negativo sullo “spread”) per le programmate nuove emissioni.
Con tali affermazioni, c’è poco da disquisire ora su “falchi” (come il Governatore austriaco Holzman, che addirittura vorrebbe ulteriori aumenti costanti fino a luglio) e “colombe” (come la posizione italiana e, anche se non a voce alta, francese, che vorrebbe un’attenuazione pressoché immediata): la linea appare tracciata e anche per il prossimo mese vi sarà un aumento di 50 punti base del tasso di riferimento. Poi, però…
Poi però le aspettative non sono del tutto univoche, dipenderà da come sarà l’andamento dell’inflazione e le scelte appaiono tuttora alquanto incerte. Tanto quelle dei banchieri centrali che quelle dei prenditori di debito, aziende o privati che siano. Questi ultimi, poi, sono alle prese con uno scenario atteso di contrazione del credito nel corso del 2023, per via tanto delle medesime incertezze accennate (inflazione e tassi rischiano di far fermare l’economia) quanto dell’incremento di non performing exposure (NPE) verso il sistema imprenditoriale.
Gli scenari sui tassi “dichiarati”, per tenere a bada l’inflazione, sono dunque di ulteriori rialzi, sia in Eurozona che negli States. Se qui si parla di 50 punti base almeno per i prossimi due/tre mesi, con target al 4,0/4,5% contro l’attuale 3%, anche là ci si attende un’ulteriore crescita, sino al 5,50/5,75% a giugno. Con più ottimismo, in Eurozona, dopo i 50 punti base in più attesi per marzo, solo altri 25 punti ad aprile, per poi attestarsi flat al 3,75%/4% fino a dopo l’estate.
Gli scenari inflattivi “attesi”, però, ci dicono che dalla fine del secondo trimestre 2023 l’incremento dovrebbe decelerare, attestandosi intorno al 5,5/6,5% a fine anno (era all’11,6/11,8% a dicembre 2022). Dal che si deduce, appunto, come le attese (ottimistiche? valide almeno fino alle prossime infornate di dati) “vedano” anche i tassi di riferimento – e di conseguenza i tassi dei crediti bancari medi – in possibile riduzione dopo i recenti incrementi. Ciò comporta come non sia affatto semplice decidere se e come (e a quali “barriere” massime, oltre che a quali costi) “coprirsi” sul rischio tassi.
Detto che, a prescindere dai costi di strutturazione, la “finestra temporale” di coperture con barriere “adeguate” (i.e. “IRS – interest rate swap” o “CAP – interest cap option”, essenzialmente con “barriera” al livello del tasso target BCE prima citato) si è ormai chiusa da qualche mese, ora le coperture mediamente proposte appaiono o troppo “elevate” (in termini di tasso-soglia) o troppo costose (se a tassi-soglia interessanti), generandosi così il dubbio su “che fare”. Per cercare di dare una risposta, è utile – a parere di chi scrive – prendere a prestito un illuminante intervento di Damodaran (professore alla Stern School of Business della New York University), col quale possiamo definire quattro scenari possibili, di fronte a noi, risultanti da una matrice a due variabili. Le variabili sono il livello di inflazione (i.e. ritornerà al livello pre-pandemico ovvero resterà alta) e il contesto economico (i.e. vi sarà recessione oppure no).
A inflazione rientrata e niente recessione, corrisponderà una riduzione dei tassi di default, una riduzione dei tassi verso fine 2023 e quindi la possibilità di rifinanziarsi a tassi più bassi sarà più vantaggiosa di una copertura adesso.
A inflazione rientrata, ma con scenario recessivo, corrisponderà un incremento dei tassi di default, uno stop al rialzo dei tassi, ma una maggiore contrazione della disponibilità di credito, talché – pur non rendendosi necessarie coperture sui tassi di medio-lungo periodo – non vi sarà però facilità di rifinanziamento nel breve.
A inflazione elevata senza scenari recessivi, invece, corrisponderà un tasso di default in crescita, essenzialmente per le imprese a maggior esposizione debitoria, una contrazione selettiva dell’accesso al credito e tassi di interesse ancora più alti, rendendosi così necessarie forme di copertura immediate (anche a tassi-soglia ad oggi ritenuti elevati).
A inflazione elevata con contestuale recessione generalizzata, infine, corrisponderà – oltre a quanto descritto nella precedente combinazione – un credit crunch più generalizzato e un ancora maggiore incremento dei default aziendali.
La scommessa di coprirsi o di rimanere sul “variabile”, quindi, si basa – oltre che sulla valutazione costi/benefici delle commissioni e delle “barriere” – su quale dei quattro scenari si valutano più “confidenti” e sulla “capacità di apnea” dei singoli prenditori di debito in caso si realizzasse uno scenario peggiore di quello ipotizzato.
Completando il ragionamento, un soggetto dal profilo prudente si orienterà comunque su strumenti di copertura (essenzialmente “CAP”, con soglie non troppo “elevate” ed accettandone il maggior costo), anche negoziati separatamente dal debito principale (e, per i privati che ne abbiano le condizioni, sfruttando la norma agevolata di conversione dal variabile al tasso fisso, “riaperta” con l’ultima Legge di Bilancio). Un profilo più strutturato (o più “aggressivo”, sotto altro punto di vista) potrà invece valutare di ricorrere a degli IRS, negoziando le “barriere” in funzione della previsione del “momento” in cui si copre e contenendo i costi negoziali, se non addirittura di “scommettere” sul non coprirsi affatto, qualora ritenesse probabile la prima delle combinazioni possibili (i.e. principio del “mean reverting”).
Quello che, in conclusione, occorre dire è che nel prossimo futuro (i.e. in realtà avrebbe già dovuto essere capito) si affermerà un nuovo paradigma sul debito, condizionato alla sua “sostenibilità” nel tempo non già solo in funzione della prevedibile capacità di rimborso futura, ma anche in funzione di scenari “distressed” delle variabili macroeconomiche (i.e. stress test potenziali), così che l’accesso al credito avrà sempre di più un effetto di “selezione avversa” del merito creditizio.